Profumo di Hormuz. Quando un tratto di mare può cambiare il mondo
di Maria Cattini
Il profumo di Hormuz, e no, non è un profumo rassicurante. Il profumo di Hormuz non è un’iperbole. È una cartina di tornasole. Se inascoltato, rischia di diventare il profumo dell’implosione: delle filiere, delle economie, delle illusioni.
E’ la strettoia che soffoca l’economia globale. Ogni giorno, più di 20 milioni di barili di petrolio solcano lo Stretto di Hormuz. Non è un dato tecnico, è una lama. Perché quando un tratto di mare largo appena 40 chilometri detiene fino al 35% del traffico petrolifero mondiale, non serve essere economisti per intuire cosa succede se qualcuno ne chiude il rubinetto.
E ora quell’ipotesi prende corpo. Per davvero.
Non è più una minaccia agitata come spauracchio. In un contesto in cui gli scontri si inaspriscono e le tensioni regionali smettono di restare “locali”, l’eventualità che Teheran decida di bloccare i transiti attraverso Hormuz diventa qualcosa da monitorare con più attenzione delle dichiarazioni ufficiali.
Effetto domino: il petrolio è solo l’inizio
Sarebbe ingenuo pensare che un’interruzione nei flussi energetici riguardi solo il prezzo del carburante. L’aumento del greggio è solo il primo tassello.
Le merci non si spostano da sole. Né gli alimenti. Né i medicinali. Né i materiali da costruzione. L’intera catena logistica globale, dalla gomma all’aria, poggia ancora sulle fondamenta di un’energia fossile che tutti dicono di voler superare, ma da cui nessuno è veramente libero.
Un blocco a Hormuz produrrebbe un effetto domino capace di travolgere i trasporti, aumentare il prezzo dei beni primari e comprimere ulteriormente il potere d’acquisto di milioni di persone. Le riserve strategiche? Possono reggere qualche settimana. Poi comincia il razionamento.
Europa, il vaso fragile in mezzo alla tempesta
L’Unione Europea ha già perso il fronte nord, con le forniture russe ormai saltate per aria. Un blocco a sud trasformerebbe lo scacchiere energetico in un campo minato, dove muoversi diventa quasi impossibile.
Si farebbe presto a parlare di transizione ecologica, di auto elettriche, di fonti rinnovabili. Ma nessuna di queste opzioni, oggi, può sostituire a breve termine i flussi che passano da Hormuz. Non per le economie industriali. Non per le famiglie.
E non si tratta solo di numeri. Si tratta di fiducia. Quella che salta quando i supermercati svuotano gli scaffali, quando il carburante viene razionato, quando le bollette si moltiplicano. Quando l’incertezza diventa permanente.
La guerra degli stretti: geopolitica del mare
Il punto non è solo Hormuz. È l’idea stessa che pochi chilometri d’acqua possano tenere sotto scacco l’intero equilibrio globale. È già accaduto a Suez, accade con Bab el-Mandeb, accadrà altrove.
I mari tornano ad essere luoghi di pressione strategica. E non solo militare: commerciale, economica, simbolica. La chiusura di Hormuz sarebbe un colpo non solo alle economie, ma a un modello di globalizzazione già traballante.
Eppure, il dibattito resta impigliato nelle contrapposizioni ideologiche, quando invece la questione dovrebbe essere affrontata per ciò che è: una partita di stabilità globale, che riguarda chiunque faccia la spesa, guidi un’auto, riscaldi casa, o provi a costruire un futuro in un mondo ancora dipendente dal petrolio.
Non è una crisi qualunque
Siamo abituati a leggere lo scenario mediorientale con la lente della cronaca: missili, raid, ritorsioni. Ma stavolta il campo di battaglia è più sottile. È invisibile, ma devastante: è l’economia reale.
Lì si combatte la guerra più lunga. Quella che fa più male. Perché la benzina che manca non fa rumore. Ma brucia. Come un cerino vicino alla polveriera.
Eppure c’è un silenzio surreale. Nessun allarme diffuso. Nessuna mobilitazione reale. I mercati oscillano, ma i governi tacciono. Come se non volessero vedere, o non sapessero che dire.
Quali soluzioni?
Tre scenari si profilano, nessuno indolore.
Diplomazia a oltranza – Riaprire i canali negoziali tra Iran e Occidente, anche a costo di rinunciare a pretese più ampie. Vantaggi? Si guadagna tempo. Svantaggi? È una tregua, non una pace.
Ristrutturazione delle rotte energetiche – Aggirare Hormuz investendo su pipeline terrestri e nuovi fornitori. Vantaggi? Diversificazione. Svantaggi? Costi enormi e tempi lunghi.
Accelerazione forzata della transizione energetica – Puntare sul green, stavolta davvero. Vantaggi? Sostenibilità a lungo termine. Svantaggi? Nessun effetto nel breve, e costi sociali altissimi.
Resta una domanda sospesa, che non è geopolitica ma personale: siamo davvero pronti a vivere in un mondo dove il mare può chiudersi, e l’aria diventare irrespirabile, anche senza una sola bomba?